Alberto Varvaro
Venticinque anni di Medioevo romanzo
[da «Revue critique de philologie romane», 0 (1998), pp. 29-38 = Atti della Giornata di studi in onore di Cesare Segre, Università di Zurigo, 3 giugno 1998]
Dedico questo mio breve intervento ad una iniziativa che da molti anni è comune a Cesare Segre ed a me, la rivista Medioevo romanzo, nella speranza che gli faccia piacere che vengano ricordate le difficoltà ed i successi di qualcosa a cui il suo nome è fortemente legato. Si tratta di un ben minuscolo paragrafo della storia della filologia romanza in Italia, storia nella quale il nome di Segre occupa uno spazio assai maggiore: ma anche questo minuscolo paragrafo ha a che fare con lui.
Dal momento in cui abbiamo deciso di fondare Medioevo romanzo sono passati più dei 22 anni che la rivista confessa sulla copertina del suo ultimo fascicolo. Ciò non perché io metta nel conto una lunga gestazione che abbia preceduto il primo numero, uscito a Pasqua del 1974 in coincidenza con lo svolgimento a Napoli del XIV congresso internazionale della Société de Linguistique Romane, ma proprio perché – con vezzo femminile che si addice ad una rivista – Medioevo romanzo si toglie quel paio di anni nei quali difficoltà editoriali ne hanno impedito l'uscita.
Di problemi con gli editori sarebbe inutile parlare, perché ne soffrono tutte le riviste scientifiche che, come la nostra, non sono appoggiate stabilmente da un ente duraturo che ne copra tutte le spese: basti pensare alle difficoltà in cui si dibatte da tempo Romance Philology, ma sospetto che anche Vox romanica non ne sia immune. Negli anni, noi abbiamo avuto – quando l'abbiamo avuto – qualche modesta sovvenzione annuale e, poiché le spese ci sono, e sono certo maggiori di quelle di una rivista che non richiede le composizioni tipografiche complesse di cui alcune volte abbiamo bisogno, sarebbe necessaria una folta massa di abbonamenti, che garantisca all'editore – che è un imprenditore e non un filantropo – il recupero dei costi ed un ragionevole margine di utile.
Noi abbiamo scelto fin dall'inizio di non voler sapere nulla della politica commerciale degli editori e dei loro risultati (io ignoro quanti siano gli abbonati a Medioevo romanzo), compensando tutto ciò con la rinuncia a scaricare su di loro qualsiasi spesa redazionale. Il che significa non soltanto che nessuno di noi ha mai guadagnato altro che la copia gratuita della rivista, ma che qualsiasi spesa nostra (ad esempio quelle postali) resta a nostro carico e che, se l'editore non si occupa della correzione o del riscontro delle bozze, queste operazioni sono sempre state fatte a Napoli senza alcun compenso. Eppure, una siffatta austerità non basta: i semplici costi di stampa e distribuzione, sia pur ridotti da qualche occasionale sovvenzione governativa, sono risultati troppo cari e non ci hanno evitato un paio di crisi. Nel nostro caso non è accaduto, come in altri, che l'editore fallisse, né che rompesse con noi per ragioni culturali o personali: si è dato proprio il caso che si stancasse, comprensibilmente, di rimetterci.
Se comincio facendovi partecipare alle angosce di chi da 25 anni teme di veder naufragare una impresa che ha creato ed a cui ha lavorato, non è senza una ragione che si lega alla circostanza di oggi: credo di poter dire che queste angosce hanno accomunato, di tutto il folto comitato di direzione, sempre e soprattutto me e Cesare. Quanto agli altri, dobbiamo ammirarne la discrezione e ringraziarli per la tacita fiducia che ci hanno concesso: avrebbero in fondo potuto accusarci di mandare in rovina la rivista. La partecipazione di Cesare Segre è stata invece sempre attenta e partecipe, e gliene sono doverosamente grato.
Non è il caso di drammatizzare, e non pretendo di farvi credere che le vicende di Medioevo romanzo abbiano veramente amareggiato una fase così lunga della nostra vita. È che la necessità di trovare, per due volte, chi se ne accollasse la pubblicazione dopo il decennio di Gaetano Macchiaroli, piccolissimo ma coriaceo editore napoletano, e poi dopo quello della ben più robusta Società Editrice Il Mulino di Bologna (ed all'uno e all'altra sono, siamo, doverosamente assai grati), ha costretto a riflettere su alcuni problemi di fondo, che forse possono interessare anche un pubblico di studiosi non italiani. È appena il caso di dire che di queste riflessioni la responsabilità è interamente mia, anche se esse nascono da ripetute discussioni con Cesare Segre, il quale però forse le condivide solo in parte.
Una rivista scientifica deve affrontare problemi seri per sopravvivere, e ciò era vero 25 anni fa tanto e più di quanto non lo sia oggi. Sono problemi in parte contingenti, ma in parte anche strutturali e generali, validi sia in Italia che in Svizzera o altrove. Medioevo romanzo non è nato per caso, tanto per darci una possibilità di pubblicare i lavori nostri e dei nostri allievi. Noi speravamo di raccogliere e rappresentare quella larga parte della romanistica italiana che non si riconosceva nei due grandi organi periodici che erano allora attivi e che lo sono del resto ancora oggi: Cultura neolatina e Studi mediolatini e volgari.
Pochi sanno che avevamo tentato di recuperare la gloriosa testata dell'Archivum romanicum, le cui origini sono legate alla Svizzera e che aveva ceduto il passo a Cultura neolatina in ragione delle leggi razziali, prima, e della scomparsa di Giulio Bertoni, poi. Ma lo scoglio insuperabile fu il desiderio dell'editore Olschki di non cederci la direzione della Biblioteca dell'«Archivum romanicum», che si era da tempo trasformato in un generico collettore di libri di ogni genere e qualità, per lo più finanziati da terzi; e noi non potevamo accettare di dirigere una rivista, ma di lasciare in balia del caso (o, tutt'al più, di decisioni altrui) una collezione che ne portava il nome.
Cultura neolatina era ed è rimasta benemerita dei nostri studi, ma il suo esplicito carattere di bollettino di un singolo centro, quello di Roma, e la forte caratterizzazione che doveva e deve al suo direttore, Aurelio Roncaglia, ne faceva una cosa diversa da ciò cui miravamo. Gli Studi mediolatini e volgari, ai quali io avevo collaborato parecchio sotto la direzione di Silvio Pellegrini, si presentavano pure come l'organo di Pisa e parevano in qualche difficoltà dopo la morte del loro fondatore. Sia l'uno che l'altro periodico soffriva di una distanza spesso forte tra la data di copertina e quella di uscita reale e sembrava rinunciare a ciò che più caratterizza un periodico, la sua regolarità. Peraltro gli Studi avevano sempre avuto cadenza annuale, se non pluriennale, e Cultura neolatina non teneva sempre il passo regolare. Ambedue le riviste ci parevano carenti nel compito di informare il lettore sulla produzione scientifica recente: le recensioni che pubblicavano non erano molte e alcune volte sembravano risentire della tendenza italiana a disinteressarsi di tutto ciò che sta di mezzo tra la stroncatura e l'elogio.
Ma il punto decisivo era che nessuna delle due riviste si era mai proposta di mettere formalmente insieme le forze di centri di ricerca diversi. Nella nostra premessa si leggeva: «le riviste di filologia romanza sono poche e, rappresentando singoli istituti, possono solo per cortesia dei direttori ospitare talora contributi delle altre scuole universitarie». A torto o a ragione, la nostra ambizione era invece proprio quella di far collaborare, su di un piede di parità, quei centri di ricerca che, fuori di Roma e Pisa, ci sembravano più attivi e di rimanere aperti, per loro tramite, alla più qualificata collaborazione internazionale. E non era intento e novità da poco, dato che la filologia romanza, in Italia, era stata funestata per una ventina d'anni da scontri personali molto violenti. Ci proponevamo anche di mantenere una regolare cadenza quadrimestrale e di offrire ai lettori una informazione quanto più larga possibile sulle novità editoriali, alternando recensioni approfondite, e possibilmente non tendenziose, a notizie più brevi ed asciutte.
La nostra finalità ultima era quella di rappresentare in campo internazionale una idea italiana di filologia romanza, sia per quanto riguarda la delimitazione medievalistica della disciplina sia per l'attenzione al momento propriamente filologico, senza peraltro dimenticare la linguistica, che nelle altre riviste italiane rimaneva molto marginale (perfino negli Studi mediolatini e volgari sotto la direzione di Giovan Battista Pellegrini). Nella nostra premessa si constatava «la progressiva sparizione della disciplina all'estero: prima per scissione dello studio delle lingue da quello delle letterature, poi per ulteriore separazione di ogni lingua e letteratura» e si valutavano positivamente, credo a ragione, le conseguenze della conservazione, in Italia, dell'antica delimitazione. Speravamo dunque di aprire la filologia romanza ad altri aspetti della medievalistica, a cominciare da quelli filologici, letterari e linguistici della fase medievale della storia della lingua italiana: non per niente due dei condirettori erano titolari di quest'ultimo insegnamento, pur se avevano coperto anche, e con prestigio, cattedre di filologia romanza. Né erano escluse la letteratura mediolatina, la filologia germanica, e così via.
Può darsi che i miei intenti e quelli di Cesare Segre, che peraltro fu l'estensore della premessa al primo fascicolo, non fossero del tutto identici, come è naturale, ma credo che egli possa riconoscersi in tutto ciò che ho qui riassunto. Credo invece di dovermi assumere la responsabilità personale di quel che dirò al momento di rispondere alla domanda cruciale, se abbiamo o no raggiunto il nostro scopo.
Comincio dal prestigio della rivista, che potrebbe sembrare la cosa più importante. Confesso che mi meraviglio io stesso ogni volta che devo constatare che Medioevo romanzo gode, in specie fuori d'Italia, di una stima di cui sarei molto più soddisfatto se si traducesse in maggior numero di abbonamenti. Un significativo indizio della cosa sono le collaborazioni di studiosi stranieri che ci arrivano da sole, a volte da persone che nessuno di noi conosce: evidentemente è diffusa la convinzione che sia opportuno avere nel proprio curriculum un articolo apparso su Medioevo romanzo. Del resto è un fatto che una grandissima percentuale degli studiosi italiani che negli ultimi due decenni ha vinto concorsi universitari ha pubblicato almeno alcune delle sue ricerche sulla nostra rivista.
A Napoli si direbbe forse che Medioevo romanzo "porta bene"; più seriamente direi che possiamo riconoscerci il merito di aver rappresentato adeguatamente, in Italia e all'estero, nel bene e nel male, la via italiana alla filologia romanza, specie nel caso degli studiosi più giovani.
Si potrebbe pensare che, per raggiungere questo scopo, sia stato necessario essere molto selettivi. Credo invece che Cesare condivida la mia intima convinzione che abbiamo pubblicato negli anni più di un articolo che avrebbe guadagnato a non uscire dal cassetto dell'autore. Non pensiate che siamo proclivi a cedere a pressioni, che del resto in genere non ci sono affatto: è proprio che la severità esercitata di fatto risulta sempre inferiore a quella che a posteriori riconosciamo come opportuna o necessaria.
Ma non è questo il rimprovero più grave che mi faccio. Intanto mi duole di avere fallito nell'intenzione di fare di Medioevo romanzo l'organo internazionale della romanistica italiana, o di una sua gran parte. La responsabilità è nostra, e per la maggior parte mia, ma hanno contribuito assai circostanze indipendenti dalla nostra volontà. In questi decenni i finanziamenti alla ricerca sono stati in Italia e altrove ben più facili di prima, e ciò ha permesso una straordinaria fioritura di periodici spesso effimeri, poco o nulla diffusi, del tutto introvabili anche perché spesso addirittura non in vendita, come in Italia è d'obbligo per le pubblicazioni delle Università. Perché, ci si potrebbe chiedere, la gente vi pubblica? Perche c'è un vantaggio incomparabile: chiunque può stamparvi i propri scritti non dico senza dover rendere conto a nessuno, ma senza neppure che le sue pagine siano lette da occhi indiscreti, né prima né – spesso – dopo la stampa. Che nessuno le legga, le possa leggere, neanche dopo, non è poi un dramma, in quanto per la legge italiana le pubblicazioni sono tali ontologicamente, non perché abbiano un pubblico reale: infatti la nostra legge riconosce la qualità di pubblicazione a tutto ciò che è depositato presso le prefetture, che non sono di solito affollate da masse di voraci lettori ed è comunque improbabile che diventino luoghi di severo controllo critico della qualità scientifica: in genere esse affidano fascicoli e volumi alla pace silenziosa della polvere o alla interessata utenza dei sorci.
Sarebbe giusto osservare che una buona parte di questi scritti non avrebbe accresciuto il successo di Medioevo romanzo, ma resta il fatto che la possibilità di mettersi in proprio ha certo impedito che Medioevo romanzo sviluppasse nel panorama italiano, come intendeva, una forza centripeta di attrazione della ricerca. Questo fallimento è stato aggravato dalla piaga sempre montante di questi ultimi cinquanta anni: gli studi in onore di qualcuno in occasione di una qualsiasi ricorrenza, più o meno rilevante. Apro una parentesi per dire che se Cesare Segre non avesse altre benemerenze, certo merita eterna gratitudine perché fa parte della ristretta schiera di snob che non ha fruito della dedica di miscellanee, schiera di eletti in cui gli farà piacere che io ricordi almeno Arnaldo Momigliano e Yakov Malkiel. Ormai l'unica Festschrift veramente originale sarebbe quella che tempestivamente celebrasse la nascita di un futuro studioso (il che poi in alcune discipline a carattere fortemente ereditario, come la medicina, non sarebbe poi impossibile).
Se a mettersi in proprio ed a sciupare carta e inchiostro per pubblicazioni destinate alle bibliografie sono spesso (ma non sempre) studiosi modesti e centri di ricerca periferici, l'essere bersagliati da richieste perentorie affinché si collabori ad onorare Tizio o Caio è proporzionale al proprio prestigio. Può dunque accadere che le richieste siano più numerose, in un anno, delle giornate di piovosità in Belgio e che per questa via una parte cospicua della produzione scientifica di studiosi di qualità vada perduta ai periodici seri, che è cosa grave. Abbiamo tentato di limitare il danno organizzando noi stessi fascicoli speciali in memoria di Santorre Debenedetti e Alberto Limentani, ma forse avremmo dovuto fare di più, anche se un periodico serio non può celebrare tutto.
Altrettanto nefasto per i periodici è un altro malanno del secolo: la proliferazione metastatica di congressi, convegni, tavole rotonde, giornate di studio e seminari. Se un tempo gli studiosi si scambiavano le fotografie perche non si sarebbero mai visti in vita loro, oggi l'anno sabbatico dovrebbe essere concesso solo a chi si impegnasse per scritto a rimanere a casa propria o a chiudersi in biblioteca a studiare. Vero è che spesso i congressi scelgono a tema il nulla o suoi sinonimi e soprattutto producono il nulla come risultato, anche perché molte delle relazioni, perfino di quelle buone, non vengono poi scritte. Ma insomma Festschriften e Atti sono i due terribili orchi che minacciano l'esistenza delle indifese e incolpevoli riviste, i parassiti che tolgono loro nutrimento e spazio. Anche qui si può tentare qualcosa: noi ad esempio abbiamo pubblicato recentemente gli atti di un convegno bolognese su Guillaume d'Orange. Ma gli atti di un congresso sono cosa diversa dal fascicolo di una rivista: non è possibile, o è assai difficile, escludere comunicazioni inutili o pessime, la direzione deve trovare un modus vivendi con gli organizzatori del congresso, vengono meno le informazioni, ecc.
Si osserverà giustamente che ad un periodico restano caratteristiche che è necessario valorizzare al massimo, in quanto sono ciò che lo differenzia da Festschriften e Atti: la continuità periodica, la durata, appunto; ed inoltre la possibilità di unire alla ricerca nuova e selezionata l'esame critico di quella recente. Il punto decisivo mi pare il secondo, ed è per questo che lo affronto subito. Credo infatti che una ricca sezione di recensioni sia ciò che più attrae in una rivista sia il lettore dell'ultimo fascicolo sia chi esamini volumi interi o
intere collezioni.
Confesso senza vergogna l'invidia che provo dinanzi alla straripante ricchezza di recensioni di Speculum e, sia pure in grado minore, della Zeitschrift fiir romanische Philologie e l'ammirazione per il magnifico lavoro in questo campo della Romance Philology degli anni d'oro di Yakov Malkiel. Quanto a noi, devo ammettere un fallimento quasi totale e non posso accampare che giustificazioni inconsistenti. Poco vale dire che organizzare un flusso costante ed organico di recensioni non è cosa facile, dato che è necessario un lavoro enorme e delicato per selezionare le pubblicazioni recenti, ottenerle dagli editori, assegnarle ai recensori, estorcere loro le recensioni, verificarle, metterle a punto per la stampa e poi assicurarsi che gli estratti siano trasmessi ai rispettivi editori per chiudere il circuito. Compiti per i quali ci vorrebbero le doti di un ufficiale di stato maggiore dell'esercito svizzero, come Max Pfister diceva di chi organizza un grande vocabolario etimologico: temo purtroppo che né io né Cesare abbiamo grandi esperienze e capacità militari. Devo però dire che in Italia non sono molti ad esserne stati capaci: ricordo Franco Simone ed i suoi Studi francesi di 40 anni fa, ma Simone aveva doti che io certo non ho.
Fatto sta che la percentuale dei casi in cui un libro è stato assegnato a qualcuno per recensione, magari su sua esplicita richiesta, ma poi non è stato recensito, è così vicina al 100% da indurre alla resa chi rinunci a perseguire i soi-disants recensori con una squadra della morte. Se Medioevo romanzo ha avuto di tanto in tanto in questo settore contributi di grandissimo pregio è perche Segre riesce miracolosamente ad ottenere dai suoi scolari delle recensioni inverosimilmente minuziose, che rifanno "nuovo nuovo" (come si dice a Napoli) il libro che prendono in esame. Purtroppo simili contributi, che resteranno fondamentali per anni, costano al recensore un tempo enorme e quindi sono rari, ma essi costituiscono la vera ossatura che supporta il polverone di schedine informative che io mi affanno a redigere, e che diventano poi le prime vittime dell'esigenza di avere un numero fisso di pagine per fascicolo.
Ciò che dico significa che non abbiamo intaccato la solida convinzione italiana che una recensione commissionata non si fa ed una spontanea nasce o dal desiderio di celebrare l'acume incomparabile di un amico o dall'esigenza incontenibile di fare a pezzi un nemico; nei casi più neutri, ma anche in quelli visibilmente tendenziosi, spesso il recensore ritiene di fare opera meritoria con minuziosi riassunti o interminabili citazioni, di modo che il lettore finisce spesso con il pensare che è più semplice che egli si legga direttamente il libro in questione, invece di perdere tempo con il recensore.
Direte che i responsabili delle riviste hanno il dovere di educare i loro collaboratori: è vero, e non c'è dubbio che così facevano Jakob Jud e Karl Jaberg e che così fa Cesare Segre. Io confesso di non esserne capace e cerco di difendermi asserendo che, ancor più difficile di educare gli autori di recensioni, è educare gli autori di articoli. Nel mondo anglosassone (ed anche da noi negli ambienti delle scienze esatte) ormai da tempo si dà per scontato che un articolo di rivista debba essere quanto più è possibile breve, chiaro, documentato ma non imbottito da citazioni e spogli e note interminabili, con un intento almeno in parte nuovo e con una linea argomentativa riconoscibile. Non così nei nostri paraggi.
Una buona parte dei materiali che arrivano è di lunghezza eccessiva e cresce addirittura nel tempo; molti articoli occuperebbero buona parte di un fascicolo di 160 pagine. Per usare una metafora ricavata dall'artiglieria, si direbbe che gli autori siano capaci soltanto di mirare al libro e che il loro tiro sia risultato involontariamente corto, ma non di molto. Per lo più una stesura più snella gioverebbe, e molto, all'autore stesso, ma un consiglio del genere, per sincero che sia, è vissuto come un affronto. Tutti sembrano convinti che il valore di un lavoro dipenda dal suo peso, come avveniva un tempo per i donativi all'Aga Khan (il quale infatti mi sembra più attento alla linea da quando l'uso di pesarlo in gioielli è stato abbandonato).
Per spiegarmi meglio faccio qualche esempio da articoli ricevuti di recente, ciascuno dei quali avrebbe largamente superato le 50 pagine. Può dunque accadere che un autore ritenga essenziale infliggere al lettore lo spoglio integrale di certe forme di perfetto in una sessantina di testi, spoglio reso poi del tutto inutile dall'assenza di quei rinvii che ne avrebbero permesso il controllo a quell'unico lettore che forse ne avrebbe avuto voglia o bisogno. Può accadere che un autore ripeta più di una volta, nel corso dello stesso articolo, le stesse informazioni o le stesse argomentazioni, e che si irriti se voi lo invitate ad enunciarle una volta sola, magari tacendo pietosamente che si tratta di assolute banalità, di cose risapute che si potrebbero del tutto lasciar cadere. Può accadere che un articolo sia costituito da un tal numero di citazioni che si finisce con il non accorgersi che mancano del tutto le argomentazioni personali; ma a differenza di quanto accade agli intarsiatori, l'arte degli accostamenti non può essere di norma l'unico pregio di un lungo scritto. Alcune volte, negli anni, anche noi abbiamo dovuto fare ricorso a fascicoli doppi, sottraendoci alla cadenza regolare del quadrimestre. Di solito ciò è avvenuto per cercare di dissimulare all'interno di 320 pagine la debordante lunghezza di studi che avrebbero soffocato le 160.
Pare che nessuno ricordi che Ferdinand de Saussure conquistò la fama e la cattedra con un Memoire di poche decine di pagine, che l'economista Sraffa era ancora più avaro di parole scritte, o addirittura che già un poeta alessandrino aveva stabilito una correlazione inversa tra qualità e quantità. Nessuno, a quanto pare, si domanda se le proprie incontinenti esternazioni riusciranno ad avere quegli stessi 25 lettori che Alessandro Manzoni paventava a torto. Confesso di essere tra coloro che lascerebbero volentieri questo genere di lavori agli atti accademici, un tipo di pubblicazione dal quale non ci si aspetta altro, e sarei tentato di imporre ai collaboratori quelle condizioni severissime che nei telegrammi discendevano dal sistema di pagamento felicemente adottato e che la posta elettronica sta recuperando, forse per la novità del mezzo. Considerate quante informazioni importanti gli studiosi di cento anni fa si trasmettevano con semplici cartoline postali.
Un fascicolo che avesse 6 o 7 articoli di tema e taglio assai vari, di costante novità e di misura uniformemente snella e che lasciasse almeno 40 pagine alle recensioni ed alle informazioni è – lo confesso – il mio ideale, ma come tutti gli ideali pare sia irraggiungibile. Può darsi del resto che sia un ideale solo mio, che altri non condividono. Vorrei aggiungere un 'ulteriore caratteristica che di certo sarà ancor meno condivisa delle altre: auspicherei che molti fascicoli contenessero, al di fuori delle recensioni, discussioni esplicitamente qualificate come tali su problemi dibattuti o comunque controversi.
Pochi settori sarebbero più del nostro adatti a ciò; anzi io considero la filologia romanza molto vitale proprio perche molti sono i punti di dissenso e di dibattito, troppo spesso silenzioso. Si comincia con il fatto che è convenzionale, e quindi controvertibile, lo stesso nostro (italiano) concetto di filologia romanza come medievalistica, ed infatti altrove la delimitazione della disciplina è diversa. Ma molto divergenti sono poi le opinioni su cosa sia importante e cosa no all'interno della medievalistica, ed infatti nella prassi quotidiana la filologia romanza come si insegna e studia a Pavia è diversa da come lo si fa a Napoli o a Roma o altrove. Il che, ripeto, è a mio parere molto positivo, ma non si esplicita mai, non si argomenta come sarebbe utile. Sono poi ovviamente controversi i metodi che applichiamo, dalla linguistica alla ecdotica, dall'ermeneutica alla storiografia letteraria. Diverse sono inevitabilmente le nostre idee su innumerevoli punti particolari, ma essenziali.
Gli esempi potrebbero essere innumerevoli e mi limiterò a chiarire quello che ho detto con un paio di casi. Ricorderete che cinquanta anni fa vigeva ancora una idea del rapporto tra cultura latina e cultura romanza nel Medioevo che oggi ci sembra insostenibile. Poiché siamo a Zurigo e poiche mi è caro ricordare lo studioso con cui ho collaborato a lungo in gioventù, è evidente che l'opera monumentale di Reto R. Bezzola sulla origine e la formazione della letteratura cortese è fortemente, e non positivamente, condizionata dalle idee prevalenti negli anni '30-'40 in un certo settore della scuola parigina, diciamo nei dintorni di Edmond Faral, allora severo amministratore del Collège de France. Tutto ciò ci sembra assai datato, ma chi ha discusso esplicitamente ed a fondo la crisi di questa impostazione? Chi ha argomentato cosa vi si debba sostituire? Non ci sono terze vie tra l'inaccettabile idea che le letterature romanze siano una continuazione pura e semplice di quella mediolatina (e dunque, ad esempio, il Roman de Renart poco più di una semplice trasposizione volgare dell'Ysengrimus) e la settorializzazione pigra ed ottusa che ci fa dimenticare che la data del Roman d'Alexandre di Alexandre de Bernai coincide con quella dell'Alexandreis di Gautier de Châtillon? Un secondo esempio, ancor più sommario: le tesi di Erich Köhler, tanto fortunate ancora pochi anni fa, vanno lasciate cadere in silenzio o vanno discusse? Va o no chiarito il loro rapporto con la medievalistica di Georges Duby e Jacques Le Goff, che è meno lineare di quanto potrebbe sembrare, se è vero che trenta anni fa l'autore del saggio celebre sugli juvenes mi diceva di non essere convinto dell'uso che ne faceva il collega di Heidelberg?
Vorrei dunque chiudere con un auspicio. Cesare Segre ha, fisicamente e metaforicamente, voce altrettanto ferma ed autorevole quanto apparentemente sommessa. In molti degli scritti raccolti nei nitidi volumi di Einaudi egli discute con discrezione, ma con lucida determinazione, le più complesse e dibattute questioni di teoria e di metodologia della letteratura; la sua maniera di fare il punto delle questioni è sempre una presa di posizione, un giudizio, una solida base per nuovi progressi. Analoghe doti sono evidenti nei suoi scritti ben noti di metodo ecdotico. Posso augurarmi che decida di affrontare allo stesso modo alcuni dei problemi centrali della romanistica medievale e che conceda a Medioevo romanzo, che è cosa sua, il privilegio di pubblicare queste pagine?